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Coordinamento artisti e curatela

 Giulia Pontoriero

Progetto Grafico

Andrea Segreto

VUOTO FECONDO

20.04.2024 – 26.04.2O24

VUOTO FECONDO

SPAZIO HANGAR di Roma è lieto di presentare, dal 21 al 26 aprile, Vuoto Fecondo, mostra personale di Serena Ciccone, curata da Giulia Pontoriero. L’esposizione sarà inaugurata sabato 20 Aprile dalle 18:00 alle 21:00, Via Ernesto Nathan, 41. Vuoto Fecondo, titolo della mostra, è un accostamento semantico di termini concettualmente opposti, i cui significanti metalinguistici giocano in un continuo rapporto fra pregnanza simbolica singolare e duale. Il progetto espositivo rimette in discussione la natura della visione pittorica e l’attitudine immaginifica, potenziale ed intima, dello sguardo, partendo da una riflessione gnoseologica della realtà. «Nella sua pratica l’artista smonta l’immediatezza del dato visibile unico, sovrapponendo in esso un reticolo ritmico e aritmico di continue realtà visive oniriche, come soglie cromatiche che si alternano e si stratificano affiancanti ad un Vuoto immanente. Se da un lato il dato non visibile, epifanico, si concretizza attraverso il pigmento, che gradiente impressiona la superficie pittorica, dall’altro si condensa astraendosi costringendo lo sguardo ad indirizzarsi verso una visione microscopica attraverso opere scultoree la cui matrice pittorica è sostituita con quella del tessuto, il tulle. L’utilizzo di un medium visivo non convenzionale come trasposizione e traduzione di un'intima potenza immaginifica, invita lo spettatore a ragionare ancora su quale sia la natura della visione.» Scrive la curatrice. Sposando una visione particellare ed energetico-spirituale della realtà, Serena Ciccone sostituisce alla matrice materica del pigmento pittorico, l’utilizzo del tulle, tessuto poroso industriale, portando sulla sfera visibile la materia invisibile del Vuoto. In un continuo rapporto fra macrocosmo e microcosmo, l’artista crea una struttura scultorea immersiva, opera monumentale site specific che sceglie di racchiudere all’interno degli ambienti di SPAZIO HANGAR, invitando lo spettatore ad addentrarsi in un scenario visivo fra interazione e contemplazione. La mostra sarà visitabile fino al 26 aprile su appuntamento dalle 17.00 – 19:00

PDF EXHIBITIONS – PRESS RELEASE

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PDF EXHIBITION

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RECENSIONE SEGNO

Laura Catini

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PRESS REALESE

Press Kit

TESTO CRITICO

Babilonia

di Giulia Pontoriero

“Per esistere le cose dovrebbero essere eterne, immortali, solo così non sarebbero solo verifiche di certe possibilità, ma veramente cose. Infatti modificandosi continuamente sono usate dalla “natura”, che verifica attraverso le loro trasformazioni tutte le possibilità di cui dispone. Così, ad esempio, una gallina nel momento in cui adempie al suo “dovere naturale” di fare un uovo, cessa di essere una gallina, per diventare solo il mezzo attraverso cui la “natura” verifica la possibilità dell’esistenza dell’uovo, e quindi del mondo dei pennuti.” Gino De Dominicis, Lettera sull’Immortalità – Roma, 10/9/1970 Attraverso queste parole Gino De Dominicis, nella sua Lettera sull’Immortalità del 1970, esprimeva l’esigenza di considerare esistenti soltanto le cose immutabili ed eterne. Negava, come elemento per esistere, la trasformazione naturale delle cose e invitava la specie umana ad imparare a “fermarsi nel Tempo”. Per rafforzarne il concetto, mi permetto di attingere nuovamente alle sue parole, quando afferma che “non esistono cose che rimangono eternamente nello stesso punto, smettono di essere degli oggetti per diventare dei verificatori di certe possibilità spaziali, quindi energia”. Gli oggetti, i luoghi e le cose, per De Dominicis, possono essere verifiche della loro possibilità di esistenza. E l’accento di riflessione si pone, dunque, attraverso molteplici domande implicite: cosa accade quando si attiva il processo mnemonico? Tracce mnestiche sopravvivono, frammenti di luoghi, oggetti, vissuti e situazioni trovano le loro espressioni mediante forme e morfologie differenti. La memoria dunque verifica nuove possibilità di esistenza e sopravvivenza di fenomeni già accaduti. Nel momento in cui l’ente si manifesta, come facciamo, se non per mezzo del ricordo nelle sue forme frammentarie ed incoerenti, a conservarla? La memoria può validare l’esistenza stessa delle cose reali, insidiandosi nel substrato conscio e inconscio dell’Io. Al netto di questa premessa, se proseguiamo supportando il ragionamento logico e razionale, ecco che il mondo appare distinto fra cogito ed esse, fra pensiero ed esistenza, fra reale e mentale. Servendosi del ricordo, la memoria attua il suo funzionamento non come processo di restituzione della totalità, quanto di sostituzione della stessa; eventi diversi in cui emergono tracce significative e significanti, per cui la il processo di memorizzazione agisce per addizione e sottrazione, fra presenza ed assenza. Babilonia, dunque, titolo di questa rassegna, è un invito a partecipare insieme in questo atto corale e di condivisione verso una coscientizzazione e una reinterpretazione semantica della memoria, non intesa come spinta nostalgica verso qualcosa che non è presente, quanto piuttosto verso la consapevolezza di qualcosa che continua a permanere nelle sue diverse modalità. L’origine del titolo, Babilonia, nasce dall’esigenza di immaginare un racconto visivo sotto forma di antico ricordo, una città monumentale e mitica, regolata e disposta secondo costumi e funzioni, secondo regole e sfarzosità, frastagliata da soglie monumentali e da torri verticali. La torre di Babele, ad esempio, sintetizza la tendenza dell’uomo ad ascendere a Dio, a divenire Dio – fuor di metafora, a voler conoscere e conoscersi nella sua interezza. L’essere umano, però, non potrà mai arrivare a quello stadio, e ogni tentativo sarà condannato al fallimento. Nella Bibbia, Dio condanna l’uomo per averlo sfidato, confondendolo per mezzo del linguaggio e impedendo una comunicazione intersoggettiva. Nella pratica, la memoria, l’inconscio, le pulsioni psichiche, agiscono con fare divino e ogni tentativo di ricostruzione da parte dell’uomo, però, sarà vano. Scegliendo un racconto trasversale Babilonia, raccoglie il vissuto di 12 artisti, riuniti per assonanza e dissonanza di linguaggi e media, il cui unico leitmotiv è il tentativo da parte degli stessi di osservare e assemblare la realtà attraverso frammenti percettivi e di coscienza, espressi attraverso opere dislocate nello spazio delle Scuderie di Palazzo Ducale Orsini Colonna. Validando, dunque, l’esistenza della Storia per mezzo del suo stesso nome e per mezzo del reperto a noi tramandato nel tempo, come espediente di un racconto originario, Babilonia, immagina se stessa come un ecosistema poliedrico e molteplice dove l’Arte fa la sua apparizione nel tentativo di raggiungere il suo stato di permanenza. Ogni artista presente in mostra conferma l’esistenza di un legame inscindibile tra creazione artistica e ricerca dell’immortalità dell’opera, come corpo-oggetto. Entrando, Eleonora Cutini, sottopone lo spettatore in un viaggio immaginifico oscuro dove il processo di memorizzazione si traduce attraverso una ricomposizione della scissione avvenuta in passato tra l’anima e il corpo. La memoria, dunque, nelle sue opere, richiama ciò che è stato assorbito nell’ombra, rievoca un mondo assopito liberato dalla presenza della figura umana. A intensificare di potere evocativo tale concetto è proprio il titolo delle opere presenti in mostra, (Ri)trovarsi al confine (2024) e (Ri)trovarsi sul percorso (2024). La radice “(Ri)” è ammantata dall’intensità della carica temporale di cui essa stessa è vestita. Nelle sue opere Cutini lascia fluire le immagini in un flusso onirico incessante, desideroso di cogliere una primordialità ancestrale insita nel nostro spirito. Le opere pittoriche di Francesco Campese (Struttura sospesa su paesaggio, 2025), invece, sembrano tradurre nella rappresentazione gli scenari di Cutini attraverso architetture sospese nel vuoto, dove il peso, grave e invasivo, appare leggiadro e privo di densità grazie alla chiarezza del cielo. Come in un sogno, le architetture diventano totem simbolici dove l’impossibile diventa probabile, frutto di tratti verosimili ed immersi in una moltitudine di stimoli visivi differenti e ricomposti fra loro. Se per Cutini e Campese la memoria si manifesta come un susseguirsi incessante di frame fra movimento e sospensione, per Elisa Selli, invece, la natura della memoria è menzognera. L’artista confonde lo spettatore appropriandosi della realtà, annullandone la sua nitidezza e concretezza (Il radicante, 2025). Visioni di scenari naturali appaiono reinventate e deformate per mezzo del pigmento pittorico. La Natura diventa effimera e concettuale, pura invenzione ideale dell’uomo; non è, parafrasando Donna Haraway, l’alterità che offre origine, né madre né curatrice, né schiava, né matrice […] diventa così un topos (Donna Haraway, Le promesse dei mostri, 1992), un luogo comune, che, rinchiuso nello stigma del confine a lei imposto, tenta di invadere fluido la superficie della tela. Emanuele Moretti nell’opera Quelle bestie (2024), copre la superficie della tela con stratificazioni di materia pittorica fluida, come un rampicante che invade le sue pareti. Due figure di Adamo ed Eva appaiono celate, quasi sommerse in uno scenario naturale. Si mostrano fragili ed incompleti come rassegnati al loro continuo cadere in tentazione. L’opera, come afferma l’artista, “si presenta come un'esplorazione visiva e simbolica dei temi della tentazione, peccato e della caduta dell'umanità". La composizione è divisa in due parti che interagiscono tra loro creando un dialogo profondo e provocatorio.” La natura invade i corpi come a voler rimuovere i segni del peccato originario; un’operazione condotta dalla coscienza con cui si mascherano contenuti sottoposti a giudizio, come l’esistenza dell’opera d’arte. Adamo ed Eva rappresentano dunque il simbolo della disobbedienza, la stessa che l’inconscio sembra seguire a discapito dell’Io. Se il mondo sensibile è solo la manifestazione del mondo spirituale, così il corpo fisico è manifestazione del corpo etereo: nelle opere di Guglielmo Mattei, la realtà appare tormentata, e il paesaggio e il suo “dovere naturale” smettono di esistere in quanto espedienti inconsci di una memoria, invece, frammentata, ma esistente. Il paesaggio di Mattei è un palinsesto di sovrapposizioni e nascondimenti: intervenendo su carta, Mattei sottrae alle sue vedute (Al Trullo e Ponte Lungo, 2025) un buon coefficiente di chiarezza, per mezzo dell'aggiunta di frammenti, in un secondo momento, che più che riempire un vuoto sostituiscono un contenuto latente. L’arte è anche un medium che permette di guardare al di là delle cose, e il sostrato visibile dovrebbe offrire il supporto all’invisibile, all’emanazione del mistero divino. Alessandro D’Aquila, per mezzo delle sue Tavole Ottometriche poetiche - in mostra Luce, del 2024 - riporta alla luce proprio l’inganno del testo, la sua potenza simbolica che via via trasforma le parole, invitando l’occhio dello spettatore a non lasciarsi ingannare dall’alfabeto. La riflessione dell'artista indaga l'atto stesso del vedere e del ricordare, una capacità che porta sullo stesso piano di realtà vedenti e non vedenti: il codice Braille, accostato all'alfabeto comune, accomuna - pur nella diversità del senso coinvolto (il tatto in luogo della vista) - è comunque una scrittura e una modalità di comunicazione che prevede l'intervento della memoria, della conservazione dei dati acquisiti. L’artista, per Filippo Saccà, è un viandante in cerca di una meta che dissolve progressivamente ogni punto di riferimento. Il pellegrinaggio diventa per Saccà annotazione di contenuti iconici, punti e linee, che susseguiti tra loro generano segni e percorsi, geomorfologie e cartografie immaginarie. Come nella memoria, quel luogo in cui vengono meno i nessi logici che concatenano gli eventi rendendoli frammenti da reimpiegare, allo stesso modo, le mappe di Filippo Saccà (Oz, Thule, 2025) negano la loro funzione originaria, di orientamento e comunicazione. E se per Saccà il sistema cardinale e i codici che regolano il paesaggio si sgretolano venendo privati della loro funzione naturale, nelle opere di Stefano Volpe (Monti e sorgenti (A Montella), 2024), in un confronto fra fotografia e scultura, il mondo appare diviso: tra due mondi uguali e opposti, perfettamente, simmetrici, c'è l'uomo, una creatura in sospensione, che galleggia tra un mondo fatto di certezze – il mondo fisico, la realtà per come la percepisce – e la dimensione rovesciata delle pulsioni inconsce, del sogno, della memoria. Come chiarito dall'artista, “Anche solo inconsapevolmente il mio lavoro in scultura finisce per essere la rappresentazione in scala di spazi astratti, e la presenza di teche o profili che definiscono un limite spaziale favorisce la percezione in tal senso.” Le opere di Ricardo Aleador Venturi (The Red and Gold Towers, 2025) rappresentano la coscienza pura e primordiale, incontaminata da atti corrosivi che la memoria adulta compie su se stessa. Venturi riporta l’opera d’arte ad uno stadio puerile, fanciullesco, al tempo in cui il bambino costruisce e ricerca la strada del proprio sé. Per mezzo della verticalità e delle sue fattezze formale, le torri di sabbia non si curano affatto dell’eventualità del crollo. Venturi, tuttavia, articola un percorso che si snoda lungo due direttrici opposte: se da un lato le torri sintetizzano il processo di costruzione dell’Io, dall’altro, nelle acqueforti, entriamo in contatto con la restituzione a posteriori di una coscienza acquisita e di una memoria che ha già provveduto a rielaborare un corpo di stimoli e sensazioni. Ad emergere, però, nelle opere di Venturi, non è tanto la robustezza, la resistenza dell’edificio, quanto piuttosto il dato cromatico: rievocando i colori araldici del casato Orsini-Colonna, e non l'imperiosità della fortificazione per mezzo del materiale, l'artista lascia intravedere un'idea di memoria fragile, mai data del tutto e disponibile a una rinegoziazione continua. Analogamente, la proposta artistica di Marialuna Storti (Eidos, 2023) ruota attorno all'idea di invasione e di perdita progressiva del controllo: i materiali si combinano, si accostano tra di loro come i residui del passato, mentre la ruggine, nelle sue opere, incarna l'azione erosiva delle forze psichiche che operano nell’inconscio, alle spalle di una ragione presa in contropiede e destinata alla fatalità della sconfitta. Il “foglio” bianco della ragione, una sorta di “doppio” della res extensa cartesiana, viene così infestato, contaminato, da macchie estranee, superfici che compromettono l'unità dell'individuo: è da presupposti similari che parte l'azione scultorea di Matteo Bagolin, il quale intercetta la superficie esterna delle sue forme per questionarla, testando la validità delle fondamenta. Il tema identitario è infatti al centro della poetica di Bagolin, che riflette, tramite un'indagine dell'involucro esterno - ancora una volta, la ragione, l'io coerente e unitario - sulla mutazione costante, e sul falso mito dell'individuo come concetto immobile (L, 2019). L'identità mutante, perennemente rilavorata dal ricordo, impedisce la cristallizzazione di testimonianze precise e messe a fuoco con un certo grado di chiarezza: le presenze umane di Silva Iampietro, collocate in paesaggi appena abbozzati e costruiti su pochi tocchi di pennello e su un ventaglio cromatico ridotto all'osso, sono apparizioni spettrali, fantasmatiche, pure sagome a cui l'artista non concede neanche la grazia di un volto riconoscibile. (Mangiamo quel che siamo, Quante ombre hai oggi, 2025, e Umido nei polmoni, 2024) Testo critico di Giulia Pontoriero

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TESTO CRITICO

Vuoto (Io) Fecondo

di Giulia Pontoriero

Vuoto (Io) Fecondo Testo critico di Giulia Pontoriero Vuoto Fecondo: un titolo ammantato di una carica ossimorica tutt’altro che progressiva ma esplicitamente dichiarata ed immediata, un accostamento volontario di due tratti semantici opposti, i cui significanti metalinguistici giocano in un continuo rapporto fra pregnanza simbolica singolare e duale. Se di dualità e singolarità, come enti, si parla, il titolo, per l’appunto, anticipa una riflessione, da un lato semantica, in quanto associazione tra simbolo e significato, dall’altro semiotica, in quanto le entità duali sono volutamente rese figurate e antinominaliste, grazie alla scelta di definirle come Assolute mediante le iniziali in scrittura capitale. E se ancora è la stessa natura semantica del nome ad attivare un processo combinatorio per mezzo della retorica, questa si avvale e accetta anche il suo opposto, nonché quella diabolica, dal greco diaballein, "discernente". La chiave di lettura, per una corretta potenza immaginifica, non è limitata ad una traduzione univoca, ma insiste proprio sulla sua molteplicità, marcando nella polarità una presunta indefinibilità propria della sua universalità nominale. Se lo si legge ad alta voce, Vuoto Fecondo devia la sua lettura definitiva nella presenza di un fonema mutevole, lo stesso che sottintende al suo rafforzativo, dunque Fecondo, nel medesimo spazio temporale, un atto potenziale singolare. Vuoto Fecondo, quindi, Vuoto (Io) Fecondo. Nell’illuminante saggio di Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del Vuoto, della natura ontologica dello spazio viene marcata la distinzione fra la concezione estetica occidentale, la nostra, e quella orientale, seppur considerando anche al loro interno la presenza più o meno marcata di sfumature concettuali. Ciò che appare chiaro mancare nella cultura occidentale, una volta presa coscienza della natura di quella asiatica, è l’accettazione di un dato di complementarietà che lega il vuoto con il pieno, e, di contro, la presa d'atto dellla volontà di trascendenza, quasi personificata degli stessi, condizionata però dalla presenza di un criterio di giudizio comparativo. Ciò che non si considera è che da tale comparazione si annichiliscono, annullandole o limitandole al mondo ideale, le stesse entità. Se oggi pensiamo al Vuoto, non possiamo non associarlo culturalmente e storicamente ad una sfera percettiva di una non-realtà pensata in termini negativi: la morte, il nulla, la noia e così via. Certamente non qualcosa-in-quanto-altro, quanto più qualcosa associabile ad un ingranaggio perdente la sua funzione, il suo élan vital. D’altronde, seguendo un vecchio detto, «facile è accorgersi della presenza del vuoto, difficile è accorgersi che il vuoto costituisce parte integrante e funzione costitutiva dell’essere». Ragionando in altri termini e considerando più vicina la filosofia orientale, considerare il Vuoto Fecondo, significa ammettere che nella sua natura di non-essere diventi la funzione costitutiva e potenziale dell’essere. E per ribaltare drasticamente il concetto, bisognerebbe riconsiderare la percezione stessa del Vuoto, mettendolo a confronto con il suo interlocutore primigenio, lo sguardo. Si considera vuoto ciò che non appartiene al mondo visibile, poiché vediamo solamente quello che guardiamo. Tutto ciò che vedo è alla portata dello sguardo, lo stesso che determina parallelamente il principio motorio del mio movimento oculare e dunque l’atto di potenza del visibile; un'epifania potenziale dell’Essere in quanto presente al mio sguardo. Come ente, il corpo reale è vedente e visibile; si tocca toccante. Ed è comune trascurare tutto ciò che non risponde a tali requisiti, poiché per esistere necessita di essere concretamente presente. Concepire il Vuoto, quale ente non visibile, come Fecondo, significa ammettere la non veridicità dell'antinomia binaria di presenza e assenza, ma sostituire, nel rafforzativo, la carica energetica e generatrice. Questa mostra, così, riporta alla luce la rilevanza nel considerare che la visibilità manifesta delle cose possa essere accompagnata verso una visibilità segreta, rivendicando la potenza procreatrice dell’atto artistico in quanto medium-contenitore ontologico. I lavori di Serena Ciccone, abbraccianti le teorie fisico-quantistiche oltre che energetico-spirituali, testimoniano l’esigenza di guardare la realtà attraverso una visione particellare inevitabilmente influenzata da quella immaginifico-pittorica, la quale rivendica la reciprocità complementare fra la presenza e l’assenza, fra l’effimero e il concreto, fra lo spazio e il pigmento pittorico. Nella sua pratica l’artista smonta l’immediatezza del dato visibile unico, sovrapponendo in esso un reticolo ritmico e aritmico di continue realtà visive oniriche, come soglie cromatiche che si alternano e si stratificano affiancante ad un Vuoto immanente. Se da un lato il dato non visibile, epifanico, si concretizza attraverso il pigmento, che gradiente impressiona la superficie pittorica, dall’altro si condensa astraendosi costringendo lo sguardo ad indirizzarsi verso una visione microscopica attraverso opere scultoree la cui matrice pittorica è sostituita con quella del tessuto, il tulle. L’utilizzo di un medium visivo non convenzionale come trasposizione e traduzione di un'intima potenza immaginifica, invita lo spettatore a ragionare ancora su quale sia la natura della visione. Ma se al posto della superficie di cotone si considera il Vuoto, la propria tela, così il tessuto poroso, come strumento pittorico, si distende riportando in luce, attraverso la sua texture, la sostanza microscopica del realtà. L’ambiente di Spazio Hangar risulta invaso e generatore; è sia medium che contenitore, le cui soglie diventano le cornici di una visione onirica. Serena Ciccone è pittrice e come tale la sua visione policroma astratta, diventa nascita prolungata e dilatante, vedente e visibile. E se dunque si rimane fedeli al principio di rassomiglianza, nelle opere presenti in mostra l’occhio si fa testimone di ciò che manca al mondo per essere quadro, quell’ente non visibile la cui carica tensiva e potenziale si manifesta proprio grazie al Vuoto Fecondo di Serena Ciccone. Come critica e curatrice sento di voler concludere questo testo proprio invitando il lettore ad osservare tale visione, ad avvicinarsi per poi allontanarsi, a scomporre la visione unica in tante soglie di insieme. Ecco: questa mostra ragiona sulla natura della pittura, poiché, parafrasando Marleau-Ponty, questa «dona esistenza visibile a ciò che la visione profana crede invisibile, fa in modo che non occorra un senso muscolare per avere la voluminosità del mondo.» (L’Occhio e lo Spirito,1964)

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