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Coordinamento artisti e curatela

Arianna Sera e Giulia Pontoriero

Progetto Grafico

Eleonora Baccari

Con il patrocinio di

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BABILONIA

19.04.2025 25 AGOSTO 2O25

BABILONIA

COMUNICATO STAMPA SPAZIO HANGAR è lieto di presentare Babilonia, mostra collettiva e rassegna artistica a cura di SPAZIO HANGAR con testo critico di Giulia Pontoriero che inaugurerà Sabato 19 Aprile alle ore 11:30 presso le Scuderie del Palazzo Ducale Orsini Colonna di Tagliacozzo(AQ). Il progetto espositivo invita lo spettatore a partecipare in un atto corale e di condivisione verso una coscientizzazione e una reinterpretazione semantica della memoria, non intesa come spinta nostalgica verso qualcosa che non è presente, quanto piuttosto verso la consapevolezza di qualcosa che continua a permanere nelle sue diverse modalità. L’origine del titolo, Babilonia, nasce dall’esigenza di immaginare un racconto visivo sotto forma di antico ricordo, una città monumentale e mitica, regolata e disposta secondo costumi e funzioni, secondo regole e sfarzosità, frastagliata da soglie monumentali e da torri verticali. Scegliendo un racconto trasversale Babilonia, raccoglie il vissuto di 12 artisti (Matteo Bagolin, Francesco Campese, Eleonora Cutini, Alessandro D’Aquila, Silva Iampietro, Guglielmo Mattei, Emanuele Moretti, Filippo Saccà, Elisa Selli, Marialuna Storti, Ricardo Aleodor Venturi e Stefano Volpe), riuniti per assonanza e dissonanza di linguaggi e media, il cui unico leitmotiv è il tentativo da parte degli stessi di osservare e assemblare la realtà attraverso frammenti percettivi e di coscienza, espressi attraverso opere dislocate all’interno dei maestosi e monumentali ambienti storici del Palazzo. Babilonia sarà visitabile fino ad Agosto e vede l’interesse dell’Amministrazione Pubblica del Città di Tagliacozzo il patrocinio di Arteix aps e di Contemporanea25.

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Press Release

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TESTO CRITICO

Babilonia

di Giulia Pontoriero

“Per esistere le cose dovrebbero essere eterne, immortali, solo così non sarebbero solo verifiche di certe possibilità, ma veramente cose. Infatti modificandosi continuamente sono usate dalla “natura”, che verifica attraverso le loro trasformazioni tutte le possibilità di cui dispone. Così, ad esempio, una gallina nel momento in cui adempie al suo “dovere naturale” di fare un uovo, cessa di essere una gallina, per diventare solo il mezzo attraverso cui la “natura” verifica la possibilità dell’esistenza dell’uovo, e quindi del mondo dei pennuti.” Gino De Dominicis, Lettera sull’Immortalità – Roma, 10/9/1970 Attraverso queste parole Gino De Dominicis, nella sua Lettera sull’Immortalità del 1970, esprimeva l’esigenza di considerare esistenti soltanto le cose immutabili ed eterne. Negava, come elemento per esistere, la trasformazione naturale delle cose e invitava la specie umana ad imparare a “fermarsi nel Tempo”. Per rafforzarne il concetto, mi permetto di attingere nuovamente alle sue parole, quando afferma che “non esistono cose che rimangono eternamente nello stesso punto, smettono di essere degli oggetti per diventare dei verificatori di certe possibilità spaziali, quindi energia”. Gli oggetti, i luoghi e le cose, per De Dominicis, possono essere verifiche della loro possibilità di esistenza. E l’accento di riflessione si pone, dunque, attraverso molteplici domande implicite: cosa accade quando si attiva il processo mnemonico? Tracce mnestiche sopravvivono, frammenti di luoghi, oggetti, vissuti e situazioni trovano le loro espressioni mediante forme e morfologie differenti. La memoria dunque verifica nuove possibilità di esistenza e sopravvivenza di fenomeni già accaduti. Nel momento in cui l’ente si manifesta, come facciamo, se non per mezzo del ricordo nelle sue forme frammentarie ed incoerenti, a conservarla? La memoria può validare l’esistenza stessa delle cose reali, insidiandosi nel substrato conscio e inconscio dell’Io. Al netto di questa premessa, se proseguiamo supportando il ragionamento logico e razionale, ecco che il mondo appare distinto fra cogito ed esse, fra pensiero ed esistenza, fra reale e mentale. Servendosi del ricordo, la memoria attua il suo funzionamento non come processo di restituzione della totalità, quanto di sostituzione della stessa; eventi diversi in cui emergono tracce significative e significanti, per cui la il processo di memorizzazione agisce per addizione e sottrazione, fra presenza ed assenza. Babilonia, dunque, titolo di questa rassegna, è un invito a partecipare insieme in questo atto corale e di condivisione verso una coscientizzazione e una reinterpretazione semantica della memoria, non intesa come spinta nostalgica verso qualcosa che non è presente, quanto piuttosto verso la consapevolezza di qualcosa che continua a permanere nelle sue diverse modalità. L’origine del titolo, Babilonia, nasce dall’esigenza di immaginare un racconto visivo sotto forma di antico ricordo, una città monumentale e mitica, regolata e disposta secondo costumi e funzioni, secondo regole e sfarzosità, frastagliata da soglie monumentali e da torri verticali. La torre di Babele, ad esempio, sintetizza la tendenza dell’uomo ad ascendere a Dio, a divenire Dio – fuor di metafora, a voler conoscere e conoscersi nella sua interezza. L’essere umano, però, non potrà mai arrivare a quello stadio, e ogni tentativo sarà condannato al fallimento. Nella Bibbia, Dio condanna l’uomo per averlo sfidato, confondendolo per mezzo del linguaggio e impedendo una comunicazione intersoggettiva. Nella pratica, la memoria, l’inconscio, le pulsioni psichiche, agiscono con fare divino e ogni tentativo di ricostruzione da parte dell’uomo, però, sarà vano. Scegliendo un racconto trasversale Babilonia, raccoglie il vissuto di 12 artisti, riuniti per assonanza e dissonanza di linguaggi e media, il cui unico leitmotiv è il tentativo da parte degli stessi di osservare e assemblare la realtà attraverso frammenti percettivi e di coscienza, espressi attraverso opere dislocate nello spazio delle Scuderie di Palazzo Ducale Orsini Colonna. Validando, dunque, l’esistenza della Storia per mezzo del suo stesso nome e per mezzo del reperto a noi tramandato nel tempo, come espediente di un racconto originario, Babilonia, immagina se stessa come un ecosistema poliedrico e molteplice dove l’Arte fa la sua apparizione nel tentativo di raggiungere il suo stato di permanenza. Ogni artista presente in mostra conferma l’esistenza di un legame inscindibile tra creazione artistica e ricerca dell’immortalità dell’opera, come corpo-oggetto. Entrando, Eleonora Cutini, sottopone lo spettatore in un viaggio immaginifico oscuro dove il processo di memorizzazione si traduce attraverso una ricomposizione della scissione avvenuta in passato tra l’anima e il corpo. La memoria, dunque, nelle sue opere, richiama ciò che è stato assorbito nell’ombra, rievoca un mondo assopito liberato dalla presenza della figura umana. A intensificare di potere evocativo tale concetto è proprio il titolo delle opere presenti in mostra, (Ri)trovarsi al confine (2024) e (Ri)trovarsi sul percorso (2024). La radice “(Ri)” è ammantata dall’intensità della carica temporale di cui essa stessa è vestita. Nelle sue opere Cutini lascia fluire le immagini in un flusso onirico incessante, desideroso di cogliere una primordialità ancestrale insita nel nostro spirito. Le opere pittoriche di Francesco Campese (Struttura sospesa su paesaggio, 2025), invece, sembrano tradurre nella rappresentazione gli scenari di Cutini attraverso architetture sospese nel vuoto, dove il peso, grave e invasivo, appare leggiadro e privo di densità grazie alla chiarezza del cielo. Come in un sogno, le architetture diventano totem simbolici dove l’impossibile diventa probabile, frutto di tratti verosimili ed immersi in una moltitudine di stimoli visivi differenti e ricomposti fra loro. Se per Cutini e Campese la memoria si manifesta come un susseguirsi incessante di frame fra movimento e sospensione, per Elisa Selli, invece, la natura della memoria è menzognera. L’artista confonde lo spettatore appropriandosi della realtà, annullandone la sua nitidezza e concretezza (Il radicante, 2025). Visioni di scenari naturali appaiono reinventate e deformate per mezzo del pigmento pittorico. La Natura diventa effimera e concettuale, pura invenzione ideale dell’uomo; non è, parafrasando Donna Haraway, l’alterità che offre origine, né madre né curatrice, né schiava, né matrice […] diventa così un topos (Donna Haraway, Le promesse dei mostri, 1992), un luogo comune, che, rinchiuso nello stigma del confine a lei imposto, tenta di invadere fluido la superficie della tela. Emanuele Moretti nell’opera Quelle bestie (2024), copre la superficie della tela con stratificazioni di materia pittorica fluida, come un rampicante che invade le sue pareti. Due figure di Adamo ed Eva appaiono celate, quasi sommerse in uno scenario naturale. Si mostrano fragili ed incompleti come rassegnati al loro continuo cadere in tentazione. L’opera, come afferma l’artista, “si presenta come un'esplorazione visiva e simbolica dei temi della tentazione, peccato e della caduta dell'umanità". La composizione è divisa in due parti che interagiscono tra loro creando un dialogo profondo e provocatorio.” La natura invade i corpi come a voler rimuovere i segni del peccato originario; un’operazione condotta dalla coscienza con cui si mascherano contenuti sottoposti a giudizio, come l’esistenza dell’opera d’arte. Adamo ed Eva rappresentano dunque il simbolo della disobbedienza, la stessa che l’inconscio sembra seguire a discapito dell’Io. Se il mondo sensibile è solo la manifestazione del mondo spirituale, così il corpo fisico è manifestazione del corpo etereo: nelle opere di Guglielmo Mattei, la realtà appare tormentata, e il paesaggio e il suo “dovere naturale” smettono di esistere in quanto espedienti inconsci di una memoria, invece, frammentata, ma esistente. Il paesaggio di Mattei è un palinsesto di sovrapposizioni e nascondimenti: intervenendo su carta, Mattei sottrae alle sue vedute (Al Trullo e Ponte Lungo, 2025) un buon coefficiente di chiarezza, per mezzo dell'aggiunta di frammenti, in un secondo momento, che più che riempire un vuoto sostituiscono un contenuto latente. L’arte è anche un medium che permette di guardare al di là delle cose, e il sostrato visibile dovrebbe offrire il supporto all’invisibile, all’emanazione del mistero divino. Alessandro D’Aquila, per mezzo delle sue Tavole Ottometriche poetiche - in mostra Luce, del 2024 - riporta alla luce proprio l’inganno del testo, la sua potenza simbolica che via via trasforma le parole, invitando l’occhio dello spettatore a non lasciarsi ingannare dall’alfabeto. La riflessione dell'artista indaga l'atto stesso del vedere e del ricordare, una capacità che porta sullo stesso piano di realtà vedenti e non vedenti: il codice Braille, accostato all'alfabeto comune, accomuna - pur nella diversità del senso coinvolto (il tatto in luogo della vista) - è comunque una scrittura e una modalità di comunicazione che prevede l'intervento della memoria, della conservazione dei dati acquisiti. L’artista, per Filippo Saccà, è un viandante in cerca di una meta che dissolve progressivamente ogni punto di riferimento. Il pellegrinaggio diventa per Saccà annotazione di contenuti iconici, punti e linee, che susseguiti tra loro generano segni e percorsi, geomorfologie e cartografie immaginarie. Come nella memoria, quel luogo in cui vengono meno i nessi logici che concatenano gli eventi rendendoli frammenti da reimpiegare, allo stesso modo, le mappe di Filippo Saccà (Oz, Thule, 2025) negano la loro funzione originaria, di orientamento e comunicazione. E se per Saccà il sistema cardinale e i codici che regolano il paesaggio si sgretolano venendo privati della loro funzione naturale, nelle opere di Stefano Volpe (Monti e sorgenti (A Montella), 2024), in un confronto fra fotografia e scultura, il mondo appare diviso: tra due mondi uguali e opposti, perfettamente, simmetrici, c'è l'uomo, una creatura in sospensione, che galleggia tra un mondo fatto di certezze – il mondo fisico, la realtà per come la percepisce – e la dimensione rovesciata delle pulsioni inconsce, del sogno, della memoria. Come chiarito dall'artista, “Anche solo inconsapevolmente il mio lavoro in scultura finisce per essere la rappresentazione in scala di spazi astratti, e la presenza di teche o profili che definiscono un limite spaziale favorisce la percezione in tal senso.” Le opere di Ricardo Aleador Venturi (The Red and Gold Towers, 2025) rappresentano la coscienza pura e primordiale, incontaminata da atti corrosivi che la memoria adulta compie su se stessa. Venturi riporta l’opera d’arte ad uno stadio puerile, fanciullesco, al tempo in cui il bambino costruisce e ricerca la strada del proprio sé. Per mezzo della verticalità e delle sue fattezze formale, le torri di sabbia non si curano affatto dell’eventualità del crollo. Venturi, tuttavia, articola un percorso che si snoda lungo due direttrici opposte: se da un lato le torri sintetizzano il processo di costruzione dell’Io, dall’altro, nelle acqueforti, entriamo in contatto con la restituzione a posteriori di una coscienza acquisita e di una memoria che ha già provveduto a rielaborare un corpo di stimoli e sensazioni. Ad emergere, però, nelle opere di Venturi, non è tanto la robustezza, la resistenza dell’edificio, quanto piuttosto il dato cromatico: rievocando i colori araldici del casato Orsini-Colonna, e non l'imperiosità della fortificazione per mezzo del materiale, l'artista lascia intravedere un'idea di memoria fragile, mai data del tutto e disponibile a una rinegoziazione continua. Analogamente, la proposta artistica di Marialuna Storti (Eidos, 2023) ruota attorno all'idea di invasione e di perdita progressiva del controllo: i materiali si combinano, si accostano tra di loro come i residui del passato, mentre la ruggine, nelle sue opere, incarna l'azione erosiva delle forze psichiche che operano nell’inconscio, alle spalle di una ragione presa in contropiede e destinata alla fatalità della sconfitta. Il “foglio” bianco della ragione, una sorta di “doppio” della res extensa cartesiana, viene così infestato, contaminato, da macchie estranee, superfici che compromettono l'unità dell'individuo: è da presupposti similari che parte l'azione scultorea di Matteo Bagolin, il quale intercetta la superficie esterna delle sue forme per questionarla, testando la validità delle fondamenta. Il tema identitario è infatti al centro della poetica di Bagolin, che riflette, tramite un'indagine dell'involucro esterno - ancora una volta, la ragione, l'io coerente e unitario - sulla mutazione costante, e sul falso mito dell'individuo come concetto immobile (L, 2019). L'identità mutante, perennemente rilavorata dal ricordo, impedisce la cristallizzazione di testimonianze precise e messe a fuoco con un certo grado di chiarezza: le presenze umane di Silva Iampietro, collocate in paesaggi appena abbozzati e costruiti su pochi tocchi di pennello e su un ventaglio cromatico ridotto all'osso, sono apparizioni spettrali, fantasmatiche, pure sagome a cui l'artista non concede neanche la grazia di un volto riconoscibile. (Mangiamo quel che siamo, Quante ombre hai oggi, 2025, e Umido nei polmoni, 2024) Testo critico di Giulia Pontoriero

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INFO

Palazzo Ducale Orsini Colonna

Via San Cosma

Tagliacozzo (AQ)

19 Aprile – 25 Agosto 2025

Opening: 19 Aprile ore 11:30

Lun-Ven: 10:30 –13.30

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