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Il corpo come identità camaleontica specchiante

La rappresentazione di ciò che, almeno apparentemente, conosciamo meglio, il nostro corpo, è da secoli una prerogativa dell’uomo. I sistemi di rappresentazione di ogni epoca rispecchiano le caratteristiche dello stile e della cultura del tempo in cui sono stati sviluppati. Per questo motivo oggi, nel mondo globalizzato in cui viviamo, il corpo è diventato un’entità camaleontica specchiante, che riflette una società in continua mutazione e evoluzione.

 

Framed racconta,  attraverso le sue opere, non solo la presenza ingombrante e a tratti scontata dell’uomo, ma descrive quella che è una riappropriazione e un superamento dell’estetizzazione e della glorificazione di cui, spesso, quest'ultimo è vittima. 

 

In una mostra in cui si affronta il tema della corporeità, sotto diversi aspetti, non si può non far riferimento a due artisti che del corpo hanno fatto il topos della loro produzione artistica: Francis Bacon e Alberto Giacometti. 

Definito il pittore del sadismo, della morte, come il più implacabile artista lirico del ventesimo secolo dell’Inghilterra, Bacon era tormentato dalla carne e dalla corruzione, ma la sua opera è altresì intrisa di fragilità. Angosciato dal marciume della vita, vissuto sempre ai limiti della moralità, sosteneva che non esiste tensione in un quadro se non c’è una lotta con l’oggetto, ovvero l’immagine dell’uomo, da cui nascono i suoi personaggi distorti e sfigurati. 

Dall’altro lato, le opere di Giacometti, figure filiformi imprigionate nella loro fragilità e quasi sul punto di dissolversi, permeano l’essenza dell’individuo anche quando questo sembra svanire e diventare inesistente.

Cito i due famosissimi artisti, in quanto in modi ed in tempistiche differenti, hanno espresso quello che oggi, in modo quasi profetico, ha esplicitato Marialuisa Antonelli nella sua personale.

 

Le opere in mostra, raccontano, attraverso un percorso a ritroso, una riappropriazione dello spazio e del segno; uno spazio che cerca di definirsi ed emanciparsi, di convivere con il segno e di risplendere di luce propria. Una metafora della condizione umana. 

Le due serie, la prima in bianco e nero e la seconda a colori, sono apparentemente distaccate e autonome, ma rappresentano due facce della stessa medaglia.

I colori, da una parte, pieni di luce, sono di grande impatto, legandosi in brevissimo tempo a sensazioni recondite, a parer mio, legate all’idea di piacere dell’occhio. Il bianco, si muove sul nero diventando, altresì, luce pura, e viceversa fa il nero. Sono allegorie di quel processo interiore che è costretto a vivere ogni uomo.

I corpi più “definiti” nell’una e meno nell’altra sono, apparentemente, solo dei segni, che non rappresentano perciò un concetto ben definito, ma sono solo loro stessi nell’articolazione di un linguaggio; linguaggio fatto di caratteristiche “fisiche”, che ben conosciamo, che rimane imperturbato ai cambiamenti. Non esiste una verità assoluta, la percezione delle cose muta con il passare del tempo e da uomo ad uomo. 

 

Non è solo la corporeità, non è solo l’assenza o la presenza di colore che fanno di questa retrospettiva un monito per le generazioni presenti e future, ma, come si legge nelle parole della curatrice “[..] Individui che, non hanno la forza di decidere per loro stessi, ciechi ed inconsapevoli delle imposizioni scelte da altri”. 

Scelte singole che riflettono su scelte collettive.

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Rosaria Madeo

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